! RP ! Storia della nostra scomparsa, Jing-Jing Lee

Non so proprio perché ma, da sempre, sono attirata da libri ambientati durante la seconda guerra mondiale. È una cosa più forte di me. Se ne scopro uno DEVE essere mio. Devo proprio leggerlo. E così, quando mi hanno proposto di far parte di questo Review Party, non ho assolutamente potuto dire di no.

Premetto che non mi è facile scrivere la recensione di questo romanzo. Prima di tutto perché non è il classico libro ambientato in quel periodo storico. Non ci sono storie d’amore, racconti di spie o nazisti che fanno chissà che. È “semplicemente” la storia della vita di Wang Di. 

Come mi avevano insegnato i miei genitori, io non valevo niente. Avrei dovuto nascere maschio. 

Wang Di è la primogenita nata in una parte del mondo dove, ai tempi, la femmina non era la benvenuta, dove solo il maschio era visto come segno di buon auspicio. Il suo nome significa letteralmente “desiderio di un fratellino” a perenne ricordo di quello che lei non è e non sarà mai. Wang Di non è mai andata a scuola. Il padre non ha mai capito perché avrebbe dovuto mandare a scuola una femmina quando i soldi erano a malapena sufficienti per mandarci i due fratelli minori. Il suo compito era di fare le faccende domestiche, tenere l’orto e andare in città a vendere le uova e quanto raccolto.

Come si fa a perdere qualcosa che non hai mai trovato?

La sua famiglia viveva in un kampong a Singapore che, prima della seconda guerra mondiale, era governata dagli inglesi. Nonostante le voci che circolavano sull’isola, nessuno si sarebbe mai aspettato una guerra. Non su di un’isola e non con gli inglesi a proteggerli. Ma, ancora prima di essere attaccati, i colonialisti hanno abbandonato l’isola e, non appena i giapponesi hanno iniziato a lanciare bombe sulla città, gli inglesi sono stati sopraffatti e, così, anche la popolazione. Allo scoppio della guerra Wang Di ha circa diciassette anni. Anni più che sufficienti perché i genitori la mandino in sposa. Quando questi si decidono a chiamare la mezzana per farle trovare il marito adatto, l’isola è già occupata e sono già iniziati i rastrellamenti. I giapponesi non si fanno problemi a fare razzie nelle case. Sono in cerca di cibo, oggetti di valore e ragazze giovani e di bell’aspetto. Anche il kampong dove abita la famiglia di Wang Di non viene risparmiato e, la primogenita, viene portata via dalla sua famiglia per essere rinchiusa in una casa di conforto.
Qui inizia una nuova fase della sua vita. Una periodo fatto di annientamento, soprusi, di sopportazione, di fatica a trovare un valido motivo per non lasciarsi morire. Il racconto di questa parte del libro è molto crudo. L’autrice non gira attorno al nocciolo del problema. Non ci ricama sopra. Il racconto è pacato ma angosciante. Eppure, nonostante tutto il male che ha dovuto sopportare, Wang Di è riuscita a fare amicizia con due ragazze che sono state costrette, come lei, a vivere in quella casa bianca e nera. Nasce una sorta di cameratismo, di legame. Loro tre si sostengono, si aiutano, si consigliano. Anche quando la fame le ha scavate fino alle ossa, anche quando il dolore è una costante, anche quando la vergogna per quello che sono costrette a fare le schiaccia, anche quando la vita perde senso, loro si supportano.

Quando questa guerra finirà, quando tutto andrà come deve andare e tornerò a casa, nessuno mi tratterà da eroe. Sono solo una donna.

Una volta finita la guerra Wang Di si trova a dover tornare alla sua vita, dalla sua famiglia, con la consapevolezza che quanto successo in quei quattro anni, l’hanno cambiata profondamente. Per questo decide di non voler più parlare di quel periodo, di quanto le è accaduto e di quanto è accaduto alle persone che le sono e le saranno al fianco. Preferisce non sapere pur di non dover raccontare perché, a distanza di anni, la vergogna che prova è sempre lì, pronta a far sentire il suo peso, pronta a schiacciarla.

A volte basta non dire niente per far parlare qualcuno.

Non so davvero che parole usare per raccontare le emozioni che ho provato. Ho provato rabbia nei confronti di quelle donne che gestivano queste case senza pensare alle ragazze che dovevano subire queste violenze ripetute. Rabbia verso i militari giapponesi che frequentavano quelle case. Più e più volte mi sono venute le lacrime agli occhi pensando a quanto davvero hanno dovuto subire quelle ragazze, poco più che bambine e cresciute troppo in fretta. Non sapete quante volte avrei voluto abbracciare Wang Di per rassicurarla, per dirle che, prima o poi, anche lei avrebbe avuto la sua dose di gioia. Ma nonostante tutta l’angoscia, sono stata ben contenta di aver avuto l’opportunità di leggere una storia che mi ha fatto vedere la seconda guerra mondiale sotto un altro punto di vista.


Elle

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