Non sarò mai la brava moglie di nessuno, Nadia Busato

Ci sono libri fatti per essere divorati in una notte.
Ci sono libri fatti per farci trasportare su altri pianeti, in mondi paralleli, in mezzo a civiltà sconosciute e impossibili da credere reali.
Ci sono libri spensierati, quelli comunemente definiti da spiaggia.
Ci sono, poi, quei libri che necessitano di tempo, di concentrazione, di silenzio e di attenzione.

Non sarò mai la brava moglie di nessuno rientra in quest’ultima categoria e ora vi spiego perché.

Partiamo subito da una constatazione semplice ed immediata: non è un libro facile. Né da leggere, né da parlarne (e, immagino, mettendomi dalla parte dell’autrice, non dev’essere stata una passeggiata nemmeno scriverlo).
Mette in difficoltà lo stile, talvolta dispersivo e talvolta troppo romanzato. Perché, di fatto, di romanzo non si tratta. E non è nemmeno una biografia vera e propria. È un libro che viaggia tra questi due generi e ciò che, per l’appunto, mi ha lasciata un po’ confusa è il sapere dove stava la verità e dove arrivava invece la fantasia dell’autrice.

In Non sarò mai la brava moglie di nessuno, Nadia Busato vuole dare voce a Evelyn McHale, giovane ventitreenne che, nel maggio del 1947, è morta suicida, lasciando cadere il suo corpo dall’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building. La foto del suo corpo, che sembra dolcemente adagiato tra le lamiere dell’automobile che ha fermato la sua caduta, ha fatto il giro del mondo, comparendo per la prima volta sulla rivista Life.
Di Evelyn però si sa ben poco ed è qui che entra in gioco il lavoro della Busato. È andata alla ricerca di notizie sulla sua famiglia, studiato il ruolo della madre - sicuramente fondamentale nella crescita psicologica della figlia, si è informata sul fidanzato dell’epoca ma ha anche approfondito dei lati che potrebbero passare inosservati: dal gruppo di lavoro di Life che ha ricevuto la foto del suo corpo morto, alla vita del fotografo stesso, dedicandosi poi alla storia di un’altra giovane donna che ha tentato il suicidio, però fallendo.
Evelyn viveva quella che poteva sembrare agli occhi di tutti una vita perfetta: il ragazzo perfetto le aveva chiesto la mano, stava economicamente bene, era libera di fare ciò che più le andava.
Ma qualcosa chiaramente non andava. Questo mondo perfetto non era perfetto per lei. Lei non si sentiva perfetta per questo mondo. Le perfezioni non combaciavano e la crisi era dietro l’angolo - tanto da mostrarsi, a sprazzi, in diversi occasioni. E a suicidio compiuto, chi la conosceva si ritrovava a pensare alla più classica delle cose: Avremmo dovuto capirlo. Ma ormai era troppo tardi.

Come vi ho detto poco più in su, di Evelyn McHale sappiamo ben poco. Non ha lasciato tracce di sé, se non per un biglietto di addio, che non fa altro che rendere ancora più misteriosa la sua figura:
In chiusura voglio parlarvi della parte del libro che più mi ha affascinata: il capitolo conclusivo, quello, probabilmente, più romanzato. In quelle pagine ho sentito Evelyn: la Busato ha fatto un lavoro magistrale, emozionante, altamente evocativo. In poche righe entriamo in contatto con l’anima fragile della McHale, vediamo il mondo con i suoi occhi e il suo spirito entra in noi, lasciandoci in bocca quel retrogusto che solo una vita amara può lasciare.

Elle

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