Io sono una di quelle donne che non vuole fasciarsi la testa prima del tempo. Non ho voluto seguire un corso pre-parto, non ho voluto leggere libri sull’età evolutiva, e non voglio partecipare a esposizioni relative ai problemi legati all’età adolescenziale. Ho sempre pensato che, di volta in volta, avrei affrontato il problema. Eppure, quando leggo un libro i cui protagonisti sono ragazzi dell’età di mia figlia, mi immedesimo in loro. Penso a come si potrebbe comportare lei al posto loro e come mi comporterei io nel caso in cui dovessi gestire questi comportamenti. E mi pongo delle domande. E questo libro, di domande, me ne ha messe davanti davvero tantissime! Quanto del mio passato si riversa nella vita dei miei figli? Quando si può andare oltre le apparenze e quando, invece, queste apparenze sono ciò che si è veramente e dietro non c’è proprio nient’altro? Dove ci porta la rabbia quando cova per anni dentro di noi?
Mentre abbasso lo sguardo su di lui e sulla sua espressione intensa, mi rendo conto che questo è il big bang. È così che i ragazzi con i capelli dorati e le facce arrabbiate si schiantano nella tua vita. È così che le stelle si scontrano e i mondi si creano. È così che tutte le storie d’amore cominciano.
Evie abita in un paesino sperduto immerso nella campagna dell’Iowa. La sua famiglia è benestante e molto religiosa. Ha una madre pettegola e bigotta che si ferma alle apparenze e per lei apparire è molto più importante che essere. Evie ama stare all’aria aperta, camminare scalza in mezzo al fango e passare ore e ore a scrivere nel suo diario nella sua casetta sull’albero immersa nel piccolo boschetto dietro casa. Ha solo dodici anni quando incontra per la prima volta Abel, ma il suo cognome parla a sufficienza per lui. Lui si chiama Abel Adams e, a Prophetstown, quel cognome è tabù.
Perché è così facile per le persone odiare, ma non capire? Perché è così facile giudicare e trarre conclusioni, ma non prendersi un momento per ascoltare?
Tutti in paese pensano che lui sia un mostro, figlio di due persone che non avrebbero mai dovuto amarsi. I suoi genitori sono cugini di primo grado e, per quella piccola comunità contadina, amarsi e aver avuto un figlio è un peccato impossibile da superare. Per questo i suoi genitori se ne sono andati dall’Iowa a New York, una grande città dove passare inosservati e dove nessuno li giudica. A distanza di più di quattordici anni, però, la comunità non ha dimenticato. Tant’è che quando Abel si trova costretto a tornare a Prophetstown, tutto l’odio tenuto in serbo per tanti anni riesplode.
Mi fa pensare che i mostri non nascano, si creino. Non che il mio Abel sia un mostro, ma comunque. Li creiamo noi, tramite le nostre azioni, tramite la nostra sconsideratezza. Li creiamo con le nostre mani e poi, puntiamo loro il dito contro.
Abel ha solo bisogno di un amico, di una figura che gli dimostri un po’ di interesse, un po’ di affetto. Ma nessuno gli si avvicina. Sembra che tutti abbiano quasi paura di lui. L’unica che non ha paura, che lo sfida, è Evie. Lei che si siede di fianco a lui sul pullman il primo giorno di scuola. Lei che commette un errore gravissimo. Perché le voci girano e, non appena queste arrivano alle orecchie della madre, si trova in punizione. Ma si sa, gli adolescenti sono pieni di risorse. E così, Evie e Abel, si trovano tutti i giorni, di nascosto dai genitori, nella casetta sull’albero. Anche in pieno inverno, quando le giornate sono fredde e grigie e le ore di sole sono davvero poche, i due ragazzi si incontrano. A dodici anni Evie non riesce a dare un nome a ciò che prova. Quelle emozioni che le esplodono nel petto tutte le volte che sta vicino a Abel, quella sensazione di farfalle che svolazzano nello stomaco. Ma gli anni passano, i due ragazzi crescono e iniziano a capire e ad accettare i loro sentimenti. Anche quando il ragazzo diventa maggiorenne e potrebbe andarsene da quel paese di bigotti, decide di rimanere. Per Evie. Per poterle stare vicino. Ma cosa succede quando i genitori di Evie vengono a sapere che lei si incontra con Abel? Che è innamorata di lui? Che scelte sono costretti a fare pur di vivere il loro amore?
È questo il bello di essere umani. Si può essere tutto ciò che si vuole. Ci si può far toccare dalle cose: rabbia, odio, invidia, amore, lussuria. Si può perdonare, dimenticare, tener duro, lasciar andare. Si può fare di tutto, ci sono infinite possibilità .
Ho trovato la lettura di questo libro davvero bellissima. Mi ha emozionato. Ho percepito tutte le emozioni dei protagonisti, tutti i loro pensieri, tutto ciò che li ha spinti a fare le scelte che hanno fatto. E il linguaggio del libro si è adeguato, si è evoluto con loro. Siamo passati da una dolcezza infinita nella prima parte ad una volgarità , a volte anche fin troppo spinta, nella seconda. Per poi tornare alla dolcezza, alla tenerezza e alla consapevolezza nell’ultima parte. Ho visto, attraverso le parole dell’autrice, quanto può far male venire isolati, quanto può ferire venire additati per qualcosa che non si è fatto. Cosa vuol dire crescere all’ombra di pregiudizi che sono così difficili da cancellare. Cosa vuol dire avere dei genitori che non capiscono le esigenze del proprio figlio, che non pensano a cosa è bene per lui ma solo a ciò che può pensare la gente di te. Cosa vuol dire nascondersi dietro un Dio chiuso al prossimo. Ho visto fin dove può spingerti la rabbia che cova per anni dentro di te. Ti spinge a fare cose che, diversamente, non avresti fatto. Ti spinge a ribellarti, a far vedere al mondo intero quel dito medio grande come una casa che vuol dire “Ecco! È così che mi vuoi? Bene! Io lo posso diventare.”
Eppure nonostante tutto il male che li circonda, Abel e Evie riescono a coltivare il seme dell’amore. Un amore a volte malato, che crea dipendenza, che ti fa sentire morto dentro ma che, una volta che è cresciuto, che le radici si sono ben piantate nel terreno, può essere potato da quei rami secchi che rischiano di soffocarlo. Per dargli la possibilità di farlo sopravvivere, più forte di prima.
Forse davvero la storia si ripete. Ma io ho una teoria. Si ripete soltanto perché noi le diamo troppo potere. O ne abbiamo troppa paura, o ne abbiamo troppa soggezione. Ci guardiamo sempre indietro e cerchiamo di seguire o sfidare gli esempi. Invece, dovremmo provare a crearne una. Scrivere la nostra storia, la nostra leggenda, piuttosto che vivere quella di qualcun altro.
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