
Così, scalza e con una semplice tunica avvolta intorno al corpo, mi avventurai nella buia notte del deserto.
Waris Dirie è somala. La sua vita da bambina è passata in mezzo al deserto. La sua famiglia è nomade e la sua occupazione, da sempre, è quella di occuparsi degli animali. La vita di Waris è molto semplice: accudisce gli animali, li porta al pascolo e in cerca di acqua e la sera torna all’accampamento. Ama i genitori, in particolare la madre, con cui sente un legame particolare. È una bambina sveglia, intelligente, curiosa e, soprattutto, ribelle. Lei vuole diventare grande, come le sue sorelle. Vuole delle scarpe in regalo dallo zio, il proprietario degli animali che accudisce. E quando questo le porta delle semplici infradito di plastica, praticamente gliele tira dietro. Lei vuole dei veri sandali di cuoio. Come quelli della sua mamma.
Diventare grande in una famiglia musulmana nomade della Somalia vuol dire una sola cosa: infibulazione. Nessuno le ha mai spiegato in cosa consiste, cosa si deve subire e le conseguenze di questa “operazione”. Ma è un passaggio obbligato. Nessun uomo vuole sposare una donna che non sia vergine e infibulata. E Waris aveva solo cinque anni quando ha subito questa mutilazione. Aveva solo tredici anni quando il padre le disse che l’aveva venduta per ben cinque cammelli. Il marito era un uomo molto più vecchio di lei, già coi capelli bianchi. All’idea di dover sposare quel “vecchio bacucco” ha preferito scappare. Complice la madre, la mattina presto ha lasciato la sua famiglia per la città . Ha attraversato il deserto a piedi scalzi, ha fatto l’autostop per raggiungere la città più vicina e poi, con l’aiuto di un paio di cugini, è riuscita a raggiungere la capitale, Mogadiscio. Qui ha raggiunto la zia, una delle sorelle della madre e, grazie alla numerosa famiglia materna, è approdata presso la casa di uno zio in partenza per Londra, ambasciatore somalo con il mandato della durata di quattro anni. Waris non ci ha pensato un attimo e ha deciso di seguirlo come cameriera. Il suo lavoro consisteva nel lavorare 18 ore al giorno per 365 l’anno per 4 anni. In tutto quel tempo non ha mai avuto un solo giorno di riposo. Non ha imparato che poche parole di inglese e, una volta scaduto il mandato dello zio, non ha voluto ritornare in Somalia. In quei quattro anni non ha mai potuto frequentare la scuola, non ha mai potuto guardare la tv e non ha mai avuto una sua libertà personale.
“È la vita”. Insomma, chi se ne frega! Pazienza. Non si può piacere a tutti, è ovvio, e non è colpa di nessuno.
Una volta rimasta sola a Londra è riuscita a farsi delle amicizie che l’hanno aiutata molto ad andare avanti, a farsi un futuro. Come lavapiatti da Mc-Donald’s è riuscita a raggranellare qualche soldo e, una sera, mentre usciva dal lavoro, ha incontrato un famoso fotografo che l’ha notata e che le ha dato il suo biglietto da visita con l’idea di farle un provino. La sua poca fiducia nei confronti degli uomini l’ha resa guardinga. Non si fidava di quell’uomo coi capelli bianchi e la coda. Ma grazie alla ragazza con cui divideva la stanza è riuscita ad andare presso il suo studio e vedere il tipo di fotografie cui voleva sottoporla. Da lì, da quel provino, è iniziata la sua carriera come modella. Non è stato di certo facile, irta di salite, ma nonostante le mille difficoltà è riuscita a farsi un nome, a fare ciò che voleva come lavoro, a trovare un uomo da amare e a formare una famiglia.
Col tempo la sua sessualità , la sua mutilazione è diventata più facile da sopportare. Col tempo ha capito che non tutte le donne del mondo sono come lei. Il sapere che tante bambine nel mondo subiscono questa mutilazione e non sopravvivono, l’ha portata a parlarne ad una giornalista di Marie Claire. Questa, una volta sentita tutta la storia, si è prodigata per poterla pubblicare. A seguito dell’uscita di questo articolo è stata nominata ambasciatrice per le Nazioni Unite.
Ho scoperto che la felicità non è data da ciò che si possiede, perché allora non possedevo nulla, eppure ero felice.
Quella di Waris Dirie è una storia vera. L’ho letta davvero tutta d’un fiato. Il pensiero che a soli cinque anni abbia dovuto subire una mutilazione così importante, soprattutto dal punto di vista psicologico, mi ha atterrita. Io, da occidentale, non ho mai pensato che in Occidente venisse praticato questo rituale, che esistessero ancora genitori che decidono consapevolmente di infliggere questo dolore alle proprie figlie in nome di una tradizione. Le conseguenze di questa mutilazione sono davvero tante. Dall'urinare molto lentamente, al provare dolori enormi per il ristagno delle mestruazioni, per non parlare dell’atto sessuale o del parto. Mi ha stupito ancora di più sapere di donne che, dopo aver partorito, sono state nuovamente ricucite, per tornare dai propri mariti di nuovo infibulate.
Il pensiero che queste menomazioni vengano effettuate in condizioni igieniche precarie, con strumenti di fortuna, mi fa pensare ai rischi che corrono queste ragazzine. Da una ”semplice” infezione o, addirittura, alla morte. Il sapere che ci sono donne come Waris, che si battono per far conoscere le conseguenze dell’infibulazione mi rincuora. Donne come lei che sono sopravvissute ad una serie infinita di problemi, di ostacoli ma che, alla fine, ce l’hanno fatta. Hanno trovato la loro via, la loro dimensione, la felicità . E se la meritano tutta. Fino all’ultima goccia.
La mutilazione genitale femminile è particolarmente diffusa in ventotto paesi africani. L’ONU ritiene che questa pratica abbia riguardato complessivamente 130 milioni di donne e ragazze. Più di due milioni sono le ragazze che ogni anno rischiano di esservi sottoposte: circa 6000 donne ogni giorno.
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Molti africani emigrati in Europa e negli Stati Uniti non hanno abbandonato questa abitudine. Il Centro Federale per il Controllo e la Prevenzione delle malattie ha calcolato che nel solo stato di New York circa 27.000 donne sono state o saranno presto sottoposte a mutilazione genitale.
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