Il cielo più azzurro, Nadia Hashimi

Ci sono momenti della vita in cui leggere è l’ultima cosa a cui pensi. La stanchezza che la sera ti assale e non ti permette di leggere un capitolo prima di crollare in catalessi mi mette tanta tristezza. Ma spero di essere uscita da questo periodo buio e di non ricaderci a breve. Il libro che mi ha accompagnato durante questo momento parla di Jason D e delle regole che, a volte, si infrangono.

È molto più facile essere spaventati insieme.

Jason D è un dodicenne che vive a Elkton, vicino a New York, con la madre. Lei è afgana ma da anni vive in America in clandestinità. Jason, invece, è nato negli Stati Uniti e non può nemmeno immaginare come possa essere la vita in Afganistan. Il padre è morto prima di riuscire a raggiungere la moglie in America perché collaboratore degli americani durante la guerra. La madre ha cresciuto Jason D tenendolo sotto una campana di vetro. L’ha sempre tenuto molto protetto, mettendolo in guardia dai mille pericoli della vita. Infatti non sono mai andati a New York proprio perché la donna ha paura della grande città e della marea di gente che la vive. L’unica amica della famiglia è Seema, una donna che la madre ha conosciuto appena arrivata negli Stati Uniti e che Jason considera una zia. Jason è un ragazzino tranquillo, molto rispettoso della madre a cui è davvero molto affezionato e non ha grandi amicizie. Per quanto difficile possa essere, la vita di Jason D è sempre stata tranquilla, ma tutto precipita quando vede dei poliziotti portare in centrale la madre e il suo principale obiettivo è raggiungere la zia a casa sua a Manhattan. Durante questo viaggio dovrà infrangere tante regole, prima fra tutte quella di non dare confidenza agli sconosciuti, ma è proprio così che conosce Max.

Non ho mai avuto un’amica come Max, una che fa tutto il possibile per farmi sentire meglio quando è lei la prima che avrebbe bisogno di essere tirata su.

Max è una ragazzina che si trova a New York perché malata di epilessia. La madre ha la fobia che le
possa venire una crisi più forte delle altre e quindi mette tutti in guardia in merito alla malattia della figlia. Max è una ragazza forte, stoica ma fisicamente debole. Vorrebbe poter vivere una vita normale, con i problemi che le ragazze della sua età hanno. Vorrebbe andare a zonzo per New York e non rimanere chiusa in un ospedale. Max ha paura di essere definita per la sua malattia e non per la persona che lei è in realtà. Ma quando incontra Jason D, per la prima volta riesce a lasciare da parte la sua malattia, a pensare a qualcos’altro.

La vita vera è molto più spaventosa di tutti i film che ho visto, e anche di tutti quelli che mamma non mi lascia vedere.

Durante la lettura del libro si percepisce chiaramente la paura della madre di Jason di dover lasciare il paese in cui vive per dover tornare in un paese, l’Afganistan, in cui non può crescere il figlio perché è un luogo poco sicuro per loro. Si intuisce anche la paura di Jason D di dover essere separato dalla sua famiglia, la paura di non avere più un’identità. Si può essere americani in Afganistan? E, viceversa, si può essere afgani in America?

In questo momento in cui lo straniero non è visto di buon occhio, l’argomento immigrazione è una nota dolente. Spesso mi domando quanta forza di volontà ci voglia per lasciare il proprio Paese, le proprio radici, per cercare di dare un futuro migliore ai propri figli e a sé stessi. E non sto parlando di quando si fa una scelta studiata a tavolino, ma di quando ci si trova costretti a lasciare tutto, magari in tutta fretta. Magari per vivere in un posto dove ci si deve adattare a fare un lavoro sottopagato o di un livello più basso di quello che hai fatto fino al giorno prima. O, semplicemente, dove le persone che ti circondano ti guardano con diffidenza. Spesso ci si sofferma sulle differenze che ci separano, invece di pensare a quello che ci accomuna. So benissimo che non tutti gli immigrati sono venuti in Italia con buone intenzioni ma penso che, per contro, ci siano tante persone che hanno affrontato tante difficoltà per avere una possibilità di riscatto, per poter vivere una vita serena rispettando le regole. E penso anche che queste persone si meritino un gesto gentile o anche solo un sorriso.

Sai, piccolo, in Afganistan i piccioni solcano il cielo per chilometri e chilometri ma poi tornano sempre a casa. Mi chiedevo perché non continuassero semplicemente a volare, visto che erano liberi di farlo. Perché tornavano sempre? Così ho scoperto che lo fanno perché imparano che
casa è il posto che li tratta bene, che dà loro da mangiare, che consente loro di riunirsi alla famiglia e agli amici.
E ciò che desidero io, più di qualunque altra cosa al mondo, è usare le mie ali per tornare a Elkton. A casa. Al luogo cui appartengo.

Elle

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